Caro signor Joyce: un saggio di Edna O’Brien | Libri

wcome lui garrulo? Indossava un soprabito? Desiderava la fama? Tali domande ci poniamo sui grandi defunti, cercando nel nostro modo desolato di identificarci con loro, qualche punto di contatto, qualche malattia, qualche capriccio che avvicina noi e loro. Tali domande non trovano risposta soddisfacente nelle opere di narrativa, gli scrittori sono per necessità prestigiatori, gli ex amanti sono inaffidabili, gli amici esagerano, i nemici biliari, quindi il più vicino che possiamo arrivare a una figura leggendaria è dalle lettere. Le lettere sono come le linee su una faccia, testimonial. In questo caso sono l’accesso all’uomo che racchiudeva la mente, che ospitava il genio di James Joyce.

In gioventù era sospettoso, sprezzante, poco accomodante. Vedeva i suoi connazionali come fatti di yahoo, preti adulteri e donne scaltre e ingannevoli. Lo classificò come “la condizione venerea degli irlandesi”. Come le oche selvatiche, aveva in mente di andare altrove. Voleva essere continentalizzato. Gli piacevano i vigneti. Aveva un sogno di Parigi e una mania per le lingue. In letteratura i suoi eroi erano il cardinale Newman e Henrik Ibsen. A Ibsen scrisse: “Il tuo lavoro sulla Terra volge al termine e tu sei vicino al silenzio. Si sta facendo buio per te. Aveva 19 anni in quel momento. I giovani di solito non sanno queste cose a meno che non ci sia già su di loro l’ombra del loro futuro. C’era su di lui. È caduto nella cecità. Era assalito da glaucoma, cataratta, disturbi dell’iride, dissoluzione della retina. Si dice che abbia subito 25 operazioni agli occhi. I suoi nervi erano come i cinguettii degli scriccioli. Il suo cervello era pandemoniaco mentre ricorreva all’aspirina, allo iodio, alla scopolamina.

James Joyce fotografato a Parigi nel 1924 con sua moglie, Nora, e i loro figli, Lucia e George.
James Joyce fotografato a Parigi nel 1924 con sua moglie, Nora, e i loro figli, Lucia e George. Fotografia: Granger Historical Picture Archive/Alamy

Motivi religiosi potrebbero aver perseguitato lui e parole latine e ade e Potsdam e melancolores e Atrahora e il portoghese per diavolo, ma rimase un uomo schietto. In una replica aspra e quasi vulnerabile fu spinto a far notare alla zia che ricevere una copia dell’Ulisse non era come ricevere una libbra di braciole e la esortò a riprendersela da qualunque teppista l’avesse strappata via, sotto il nome del prestito. La sua mente era per sempre informatica. Nella lettera successiva, o nella lettera successiva, le fece domande. Se una tale edera di casa fosse appesa al muro del lungomare, quanti gradini c’erano fino al mare, un uomo potrebbe scavalcare una certa ringhiera in Eccles Street senza ferirsi. Per lui le parole non erano solo letteratura, ma numeri, cifre, cose che quando le metteva insieme nel suo modo selvaggio e prodigioso, assumevano un’altra luce, un altro lustro, ed erano le litanie della sua decaduta anima cattolica. Gli piacevano i libri di inni, i pettegolezzi e tutte le lingue da saldare insieme. L’inglese per cui si batteva era pidgin, cockney, irlandese, Bowery, mitologico e biblico. Per evitare di essere stucchevole, o correre il rischio di essere letterario, precedeva sempre le sue frasi incandescenti con una battuta. Quando chiese a Italo Svevo di ritirare una valigetta, prima descrisse con precisione chirurgica la tela cerata, il peso approssimativo, la misura approssimativa e la sporgenza che gli parve somigliare al ventre di una suora. Poi aggiunse: “In questa valigetta ho messo i simboli scritti delle luci languide che di tanto in tanto lampeggiavano nella mia anima”. Solo dando una carnagione pedonale all’insieme poteva comunicare il suo vero sentimento, la sua profondità.

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Amare! L’amore rende tutti noi stupidi. È un conforto sapere che è caduto in modo sublime in quelle trappole. Nessun distacco, nessuna frase grandiosa ma furiosa lussuria bollente, sospettosità e dubbio. Il suo oggetto d’amore, e duraturo, Nora Barnacle, era di Galway, la città del suo nome tribale. Lasciarono la “matrigna Eireann” nell’ottobre del 1904 per intraprendere una vita di miseria, ostacoli e avventure. La loro prima tappa fu la città navale di Pola, dove Joyce insegnò in una scuola Berlitz, si crogiolò nell’ambiente di diverse lingue e teneva regolarmente corte nelle taverne. Intanto, in qualche stanza presa in affitto, malata per casa, Nora in motorino, veniva ridicolizzata dai co-professori, minacciando spesso di lasciarlo, ma non lo faceva mai.

In una breve visita a Dublino, con il ridicolo intento di aprire un cinema, la passione di Joyce per Nora si riaccese e si tramutò in un torrente di lettere intemperanti. Potrebbe essere picchiato da lei, o meglio ancora frustato? Potrebbe essere suo figlio? Potrebbe essere sua madre? Desiderio e vergogna, vergogna e desiderio. Le sue stesse parole per i suoi sentimenti erano che erano pazzi e sporchi.

Ha curato il proprio talento, non nell’interesse di magniloquenza o di autoesaltazione, ma piuttosto come un fedele guardiano. Aveva la fissità del grande e quindi non aveva bisogno di vanità. Stimò che tre scellini sarebbero stati un prezzo ragionevole per Ulisse. Un libro noioso, ammise. Allo stesso tempo era perseguitato dal timore che la tipografia venisse bruciata o che si verificasse una spiacevole catastrofe. Ha assistito Miss Beach nell’imballaggio delle copie, ha autografato le edizioni deluxe, ha scritto a persone influenti, ha venduto pacchi all’ufficio postale. Sapeva che i trati avrebbero cambiato idea molte volte prima di accontentarsi di un parere definitivo e che molti altri ne avrebbero saputo tanto quanto la parte parlamentare del suo culo.

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È stato per la sicurezza e il benessere della sua famiglia che il suo profondo cuore è stato messo a nudo. Ebbe due figli, Giorgio e Lucia, e credette che qualche misteriosa malattia fosse capitata loro quand’erano piccoli. Lucia voleva fare la ballerina e poi l’illustratrice, ma non ci è riuscita neanche. Padri e figlie. Quella stretta clandestina. A vent’anni si sentiva un fallimento. Prima apatia, poi scivolare in un discorso che riecheggiava il “discorso” di Finnegans Wake, tanto che la chiamò la sua “Inspiratrice”. È diventata violenta, soprattutto nei confronti della madre. Alla fine gli specialisti ei medici lo convinsero che aveva superato la linea di demarcazione e avrebbe dovuto essere ricoverata in qualche istituto. Odiava le sue incarcerazioni, disse che Jung era un uomo grasso, che cercava di rubarle l’anima, diede fuoco a molti di questi locali, dopodiché Joyce e Nora dovettero trovare un altro sanatorio in Austria, Germania o Svizzera. Joyce, che ha costruito costellazioni attraverso il linguaggio, non ha potuto curarla.

Verso la fine della sua vita ci fu un disgelo, uno scioglimento. Si inchinò, all’opera. Ma non era la fama a farlo ammorbidire, quindi, sicuramente era la crescita. Chiamava persone, mandava saluti, telegrammi, intratteneva gli ospiti con i suoi chiari toni da tenore. Ha inviato a Yeats una copia autografa di Work in Progress e ha detto che se la signora Yeats avesse voluto scucire le prime pagine di Ulisse, l’avrebbe felicemente firmato per loro. Mandò Pomes Penyeach alla biblioteca dell’Università di Galway. Avevano fatto realizzare una scrivania speciale ed era felice che il suo libro, con le scritte di Lucia, fosse esposto a tutti gli ex teppisti. Era arrivato a un’altezza.

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Quando scoppiò la guerra, Joyce e Nora dovettero lasciare Parigi per la Svizzera neutrale. L’impresa conteneva tutto il pasticcio e la stridente perversione di una favola di Kafka. Peggio ancora, non poteva, sebbene cercasse instancabilmente, di ottenere un permesso per il rilascio di Lucia da una Maison de Santé in Bretagna.

Una figura solitaria con una benda sull’occhio in un lungo soprabito, lo si vedeva passeggiare per le strade secondarie di Zurigo con un bastone, pietre in tasca per scacciare i cani predoni. Finiche. Non piu. Un fadografo d’altri tempi.

A gennaio è stato colpito da dolori che possono essere alleviati solo dalla morfina e il giorno dopo, contorcendosi come un pesce, è stato portato all’ospedale della Croce Rossa. Lì gli è stata diagnosticata un’ulcera duodenale perforata che era stata la sua compagna non diagnosticata per anni ed è stata operata immediatamente. Più tardi, due soldati di Neuchâtel, una regione nota per il vino che aveva gustato così spesso, furono fornite trasfusioni di sangue. A Nora fu consigliato di tornare ai loro alloggi, credendo che il peggio fosse passato. Era appena al limite dei 60. Dopo alcune ore, cadde in coma e morì. Era il 13 gennaio 1941: il 13 era un numero che aveva sempre considerato inadatto ai viaggi.

È difficile non credere nell’immortalità, vista la prematura scomparsa del caro signor Joyce.

Questo saggio è stato pubblicato per la prima volta nella raccolta del 1970 A Bash in the Tunnel: James Joyce degli irlandesi

Edna O’Brien ha scritto un’opera teatrale, Joyce’s Women, in occasione del 100° anniversario di Ulisse

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