“Ciò che mi stupisce di più è questa generazione che vive in un continente, ma ha sempre la testa sulla testa dei suoi padri”.
– Il giovane regista, nato in Italia e residente in Belgio, ci racconta il suo primo lungometraggio documentario, che segue i frequenti viaggi di un giovane burkinabé tra due continenti
Nel suo primo lungometraggio documentario intitolato Ragazzo italiano [+see also:
film review
interview: Mathieu Volpe
film profile] E gioca nella competizione nazionale in Festival internazionale del cinema di BruxellesE Matteo Volpe Segue i frequenti viaggi di Socorro tra l’Italia e il Burkina Faso, un giovane burkinabé che vede il suo matrimonio con Nazareth come un’opportunità per riconnettersi con le sue origini, lottando nel contempo per mantenere le sue nuove radici in Italia.
Cineuropa: Quali sono le origini di questo progetto?
Matteo Volpe: Ha conseguito un master in Documentary Filmmaking, dopo di che ha diretto un cortometraggio nel 2019 chiamato Clin Territore, su uno slum vicino a dove sono cresciuto, nel sud Italia. È qui che ho conosciuto la famiglia Socorro, che lavorava in quel ghetto dove la gente viene a raccogliere i pomodori d’estate, e che partecipava all’economia di questo paese abbandonato. Tutti i progetti a cui lavoro hanno a che fare con il posto degli stranieri in Italia e il modo in cui la società li vede. In Italia c’è una visione ingiusta dei neri. E penso che attraverso i film che si fanno, possiamo cambiare quella prospettiva.
Come presenteresti il film in poche parole?
Racconta la storia di Socorro, un giovane immigrato burkinabé che vive in Italia, che conosco da qualche anno, e che un giorno sarebbe come me se potessi fotografare il suo matrimonio con una giovane donna del suo villaggio natale. All’inizio è stata una grande opportunità per trascorrere del tempo insieme, poi ho capito che questa era la premessa di un film che potesse affrontare il divario Nord-Sud. Abbiamo osservato come questa relazione è cresciuta nonostante la distanza e come sarebbe crollata o ricostruita. È anche la storia dell’eredità ricevuta da giovani i cui genitori si sono appena trasferiti in un altro paese. quanto vengono sradicati, soprattutto quando diventano adulti; Come scelgono dove stabilirsi e costruire le loro vite?
Quello che mi stupisce di più di Socorro è che viene da una generazione che vive in un continente, ma ha sempre la testa rivolta verso quella dei genitori. Tanto più che per lui il matrimonio è un modo per riconnettersi con le proprie origini, che per Nasirah è un primo passo verso l’emigrazione in Europa. Come hanno stabilito questo rapporto nonostante le loro diverse visioni e diversi progetti?
Il viaggio di Socorro permette anche di mostrare una prospettiva diversa sul tema della migrazione economica.
Ciò che mi sembra essenziale oggi, soprattutto per un regista bianco interessato all’Africa, è condividere uno sguardo con un protagonista. Volevo raccontare questa storia con lui, volevo parlare di immigrazione ma anche di sopravvivenza a misura d’uomo, da incarnare attraverso questa storia d’amore e di costruzione di questa famiglia.
Ho già letto una frase Lorenzo Judy nella sua versione Eldorado, che affermava che c’è sempre una generazione persa nell’emigrazione, che è quella costituita dai figli di coloro che hanno deciso di partire e ai quali questa emigrazione è stata sostanzialmente imposta. Ma bisogna aspettare due o tre generazioni prima che le persone attecchiscano davvero nel nuovo paese. È come se ci fosse una debole correlazione nella migrazione. Per il fratellino di Socorro è un’altra storia, dato che è nato in Italia e lì ha quindi completato tutta la sua formazione. Come affrontate il divario culturale, materiale ed economico di 4.000 km tra il Burkina Faso e l’Italia?
C’è un peso del patrimonio familiare, ma anche del paese ospitante, e del fatto che una persona con questo tipo di profilo non avrà accesso a lavori diversi da quelli che gli italiani non vogliono più fare.
Quali sono i tuoi riferimenti, film o conferenze che ti hanno ispirato?
Ho visto molti dei film del regista di documentari Roberto Minervino, che funziona davvero con la durata. Per questo film, abbiamo lunghi momenti in Burkina Faso o in Italia ogni volta, passeremmo forse due o tre settimane vivendo con la famiglia Socorro. A volte giravamo appena 10 minuti di filmati al giorno, ma eravamo davvero interessati alla dinamica della condivisione. Era anche un modo per rispettarli.
(tradotto dal francese)