Nella pletora di studi, ricerche e progetti che circondano l’8 marzo di ogni anno, un sondaggio intitolato The Future of Work Diversity and Inclusion ha attirato la mia attenzione.E A cura dell’Osservatorio dell’Azione di Eñez e Fiera Milano Che ha comportato l’intervista a circa 100 responsabili delle risorse umane nelle aziende italiane. Giunto alla sua quinta edizione, è segno che il tema della diversità non è affatto salito alla ribalta solo nelle cronache. Il loro primo dato sembra positivo: l’84% degli intervistati ha riconosciuto il “valore morale” delle politiche di inclusione, cosa che ormai tendiamo a dare per scontata. Ma sono gli altri dati a preoccupare: solo la metà degli intervistati ha dichiarato di riconoscere gli effetti che queste politiche di inclusione potrebbero avere su un’impresa e solo il 42% sembra consapevole del fatto che l’interesse per la diversità può avere un impatto anche su un reputazione dell’azienda. all’interno della comunità finanziaria.
Quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, sembra che le aziende italiane non abbiano ancora trovato il modo o la motivazione per prendere sul serio la diversità: solo il 46% degli intervistati ha confermato di aver già intrapreso azioni concrete, anche se il 63% di quelle chi ha risposto negativamente non l’ha fatto, lesina sulla buona volontà e dichiara di volerle attuare “in un prossimo futuro”. Le diversità considerate sono state soprattutto quelle legate alla disabilità (78%) e al genere (76%), mentre l’orientamento sessuale, l’origine geografica e la religione sono temi che non sembrano meritare un intervento urgente.
Tali statistiche sono deprimenti perché anni di convegni, relazioni e progetti sembrano essere passati invano. Nelle aziende italiane manca la consapevolezza culturale non solo del fatto che è giusto rispettare la diversità e il suo valore, ma soprattutto che così facendo si avvicinano i benefici commerciali ai consumatori e si soddisfano le sfide valoriali delle nuove generazioni. L’impressione è che si strumentalizzino stanchi riti della “Festa della donna” per fare qualche giro di marketing, nella migliore tradizione del greenwashing in campo ambientale. Dopo la “sciarada delle mimose” si può tornare a non fare nulla, o solo quel minimo che è indispensabile per mantenere una certa reputazione. E lo confermano i dati dell’Inaz: il 76% delle aziende intervistate dichiara, infatti, di occuparsi principalmente della lotta alla disparità di genere. Peccato, poi, che solo il 44% monitori costantemente il gender pay gap in azienda e solo il 33% faccia qualcosa di concreto per ridurlo.
Ciò potrebbe dipendere dalla particolare struttura della comunità imprenditoriale italiana, costituita, per così dire, da piccole e medie imprese familiari? Potrebbe anche essere, al contrario, il risultato di una società ‘in teoria’ d’accordo con un insieme di valori ma che non ha alcun reale interesse ad affermarli in senso concreto? È difficile ottenere una risposta definitiva a queste domande. Non ci resta che formulare il solito, banale e un po’ disperato augurio: speriamo che l’Italia trovi il modo di voltare pagina da questo desolato 63° posto nella classifica del Global Gender Gap Index del World Economic Forum. Se la strana congiunzione stellare, che ha reso due donne presidenti, una del governo e una dei principali partiti di opposizione, avrebbe potuto favorire un tale cambiamento!